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Facciamo che io ero...

È la frase più conosciuta che introduce i giochi dei bambini, il gioco di interpretazione di un ruolo come “la mamma”, “il figlio”, “la maestra”, “il fruttivendolo”…. Sibaldi dice che è un modo per esplorare il mondo fuori da se stessi, da quello che si è già, per sperimentare qualcosa di diverso interpretandone il ruolo.

Per i bambini infatti, è molto chiara la distinzione tra il ruolo giocato, appunto, e l’essere se stessi. Lo sanno in maniera intuitiva, non hanno bisogno di corsi e spiegazioni, i bambini.

Ma noi adulti? Noi ci sentiamo spesso identificati con i ruoli che ricopriamo quotidianamente e questo ci confonde distogliendoci dalla nostra essenza più profonda (quella che sentivamo bene quando eravamo ancora bambini) e facendoci credere che “siamo” la mamma, o la moglie o l’ingegnere.

Il ruolo agito con consapevolezza ci permette di essere molto di più di ciò che recitiamo, ci permette di cambiare ruolo, di cambiare modello di riferimento all’interno dello stesso ruolo o le battute del copione…. Quando “giochiamo che io ero…” questo include implicitamente che posso non essere quel ruolo o esserlo nella maniera che voglio. Poi posso tornare a “me” ed essere altro. È qualcosa “altro da me”, nel quale entro ed esco a mio piacimento. So che recito quando lo agisco.

 

Ma l’identificazione col ruolo porta a credere di “essere” quel ruolo, con tutti gli svantaggi di un blocco della creatività che conduce alla ripetizione delle battute del copione che vogliamo rimangano sempre le stesse (è più facile) e alla difficoltà di cambiare orizzonte, punti di vista….

 

Infatti i figli ci chiamano “mamma” o “papà”, come richiesta di ottemperare ai bisogni legati a quel ruolo, ma noi siamo molto più di quello. Coi figli facciamo il “genitore”, cioè agiamo un ruolo e questo ci permette di sapere cosa fa una buona madre o un buon padre, ma se diveniamo solo quello, non permetteremo loro di conoscere altro di noi…. A meno che non decidiamo un bel giorno di considerarli adulti, persone autonome e autorevoli, in grado di capire cosa altro siamo rispetto alla “mamma” o al “papà”. Altrimenti questo rischia di bloccare anche il figlio nel ruolo di figlio, non consentendogli una crescita adeguata verso il divenire adulto, emanciparsi dalla vecchia famiglia e crearne una sua. E così i figli, quando tornano dalla “mamma” (nella famiglia di origine) rientrano nelle stesse vecchie dinamiche anche dopo molti anni. Se ci presentiamo dicendo “sono un ingegnere”, invece di dire “faccio l’ingegnere”, non ci accorgiamo che questo comporta una adesione totale al ruolo, escludendo automaticamente tutto il resto di ciò che siamo.

 

Il meccanismo è quello che io chiamo del “Porto Sicuro”. Sapere cosa dire e cosa fare dà sicurezza, inoltre garantisce la giusta dose di illusione di essere qualcosa o qualcuno, cioè di esistere, attraverso l'”io sono” (“....un ingegnere” per esempio). Il Porto Sicuro è quando so esattamente cosa è “giusto” e cosa no, come si fa una cosa e come essere approvato dagli altri in base a una serie di battute di un copione che si ripete. Il Porto Sicuro è il miglior modo che il sistema ha di controllare le azioni di tutti. Semplicemente perchè è il sistema stesso a creare i clichet da recitare offrendo una vasta gamma di copioni attraverso la pubblicità i film e i telegiornali: La brava madre, l'uomo premuroso, il figlioletto modello, ma anche la madre stanca, l'uomo che si dà da fare in casa, il figlio ribelle, il lavoratore che vuole l'aumento.... Ma.... se ci fermassimo un attimo e provassimo ad avere un nostro pensiero su quest'affare dei ruoli.... forse ci accorgeremmo che magari il lavoratore potrebbe desiderare altro per la sua vita e non accontentarsi di un aumento, la mamma, invece di recitare il copione della “stanca” potrebbe amarsi di più e desiderare un viaggio, riposarsi, smettere di compiacere, il figlio potrebbe smettere di ribellarsi e imparare nuovi modi per comunicare.... Perchè sapete cosa accade a recitare troppo un ruolo? Non si ritrova più ciò che siamo realmente, la nostra essenza profonda che tutto può essere e che tutto comprende. Se non comprendiamo che siamo UNO, che tutto ciò che si manifesta negli altri in qualche modo appartiene anche a noi, avremo bisogno di distingurlo da noi e inizieremo ad attribuire “etichette” agli altri (giudizio) per salvarci da ciò che non ci piace e pensiamo non ci appartenga (non lo comprendiamo cioè non lo portiamo dentro noi stessi). Restiamo imprigionati senza accorgerci della prigione perché quelle sbarre sono proprio quelle che ci creano quel senso di sicurezza e di confine con i nostri punti fermi e così protettivi!

 

Il lato oscuro di tutto ciò è la separazione dal resto, dagli altri. Se sono qualcosa non sono qualcos'altro, così si crea il giusto e lo sbagliato, il buono (di solito io) e il cattivo (l'altro). E' sul principio di identificazione con una etichetta che si creano le aberrazioni del sociale: io ebreo, io omosessuale, io donna, io madre, ecc, perchè se siamo portati a guardare l'altro secondo un aspetto solo, dimenticandoci del resto, non può succedere altro che dimenticarsi di tutte le altre parti. E' così che nascono le fazioni, le bande, il razzismo, l'esclusione, il bullismo.... attraverso il dare un nome a qualcosa che si ritiene “diverso” (debole, sbagliato, violento, sporco....).

 

E se provassimo un po' al giorno a chiederci semplicemente: chi ho giudicato oggi? Da chi mi sono sentito diverso o separato? E provassimo a cercare quanto quella caratteristica ci appartiene, magari solo un po'.... sarebbe già un grande, un enorme passo verso la costruzione di una comunità inclusiva e collaborativa.

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